Il modello zero meeting funziona?

Il modello zero meeting funziona?

Il modello zero meeting funziona?

modello zero meeting

Siamo sempre più invasi di riunioni.

Secondo il Work Trend Index 2022 di Microsoft, nel 2022 le riunioni settimanali sono aumentate del 153% a livello globale per l’utente medio di Microsoft Teams dall’inizio della pandemia, e non ci sono indicazioni di inversione di tendenza, suggerendo che questo picco potrebbe diventare la nuova base di partenza.

Inoltre, da questo studio si evince che le riunioni sovrapposte (prenotate due volte) sono aumentate del 46% per persona in una settimana media e che il 42% di partecipanti è multitasking durante le riunioni (inviando attivamente un’e-mail o un ping) e che non include pratiche come la lettura e-mail e ping in arrivo (ad esempio lavoro di file, numeri, analisi o attività di archiviazione).

Insomma, siamo schiavi delle riunioni che, sempre secondo Microsoft, portano ad un aumento dell’uso del suo strumento, ma non necessariamente ad un aumento di produttività, efficienza, efficacia. E anche se pensiamo alla nostra giornata media, possiamo ragionevolmente ammettere che il 90% di quei meeting poteva essere una email.

È da qui che stanno ripartendo alcune grandi aziende: lanciando il modello “zero meeting” o “meeting reset”

Ad esempio, Shopify ha eliminato tutte le riunioni con più di due persone, con il divieto tassativo di effettuarne per un giorno a settimana. Molti colossi si stanno muovendo in tal senso, avendo capito che la riunione è diventato uno strumento di tortura e che, invece che aiutare, incatena l’organizzazione.

Il “meeting reset” passa quindi da un grande momento di detox, per ricominciare da capo, definire quali siano i meeting utili e inserire solo quelli, per quanto possibile.

In Italia ci sono già alcuni casi di aziende virtuose che si stanno ingegnando per liberare il tempo dei propri collaboratori. In Engineering le call sono di 30 minuti e fuori dalla fascia del pranzo; Satispay si ispira ai comandamenti di Bezos in tema riunioni e impone di inviare del materiale preparatorio, oltre che a fornire indicazioni sulla lista degli “invitati”, evitando chi non è strettamente necessario.

Insomma, siamo ancora lontani dal modello zero meeting, ma già che se ne parli porta fiducia e speranza. Non sappiamo se possa funzionare, ma di certo sappiamo che in questo momento si lavora con un carico di stress intollerabile e che diminuirlo porterebbe da subito risultati positivi, sul lavoro e sulle persone che, in fondo, spesso chiedono solo di poter lavorare in santa pace.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel mondo:
il risultato dello Studio Rödl & Partner in collaborazione con Adecco.

Smart Working Nel mondo_studio Adecco

È stato da poco reso noto un report effettuato dallo Studio Rödl & Partner in collaborazione con LHH (The Adecco Group). Il gruppo è partito da 11 domande per analizzare similitudini e differenze per datori di lavoro e dipendenti nell’era del lavoro agile.

Cosa ne emerge?

Un quadro variegato, certamente. Considerando anche che lo studio ha avvicinato paesi con situazioni geopolitiche, sociali e culturali molto diversi (Dai paesi europei fino alla Cina passando per gli Emirati Arabi)

Lo Smart Working è contrattualizzato?

In molti paesi UE, si. In Francia, in Finlandia (anche se dipende da mansione e ruolo) e in Danimarca da molto poco tempo (2021). Non c’è invece traccia di contratti che legiferano lo Smart Working in Germania. Passando poi al resto del mondo, poco e nulla nei grandi paesi mondiali come Cina e India. Gli Emirati, invece, hanno introdotto una prima normativa durante la pandemia per poi eliminarla una volta finita l’emergenza.

In tutti i paesi però è previsto un accordo datore-lavoratore, proprio perché sono molti i temi su cui il lavoro agile può differire dal contratto di lavoro “standard”, come il luogo di lavoro “accettabile”, i rimborsi per i costi sostenuti, la dotazione tecnologica.

E il diritto alla disconnessione?

Il diritto alla disconnessione è stabilito con una legge o un articolo preciso in 7 dei 19 stati analizzati dallo studio; tra questi, anche l’Italia. Ricordiamoci infatti che nel nostro paese la Legge sul Lavoro Agile (l. n.81/2017) ha già definito tutto ormai 6 anni fa quando, a parlare di smart working, erano poche centinaia di migliaia di persone. 

Questa volta abbiamo fatto le cose bene e quasi per primi. Da ricordarselo quando, nelle chiacchere da bar, ci si trova ad ascoltare frasi come “all’estero funziona tutto meglio”!

L’intera ricerca è scaricabile dal sito www.lhh.com/it/

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working Si, Smart Working no?

Parliamone!

smartworking si, smart working no

C’era un tempo in cui poche, pochissime, persone conoscevano il significato della parola “smart working”. Se ci guardiamo indietro, solamente 4 anni fa (2019) c’erano circa 500K* lavoratori dipendenti le cui aziende avevano implementato una qualche forma di smart working e, considerando gli addetti ai lavori, forse si arrivava a 600k.

Poi abbiamo affrontato una pandemia e il primo lockdown e quella parola, anche un po’ biascicata, pronunciata dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha fatto letteralmente il boom! Le ricerche su Google sono impazzite e, come ogni novità, sorgevano come funghi super esperti del caso e consigli imperdibili.

E poi che è successo?

Anche lo smart working ha attraversato il ciclo che colpisce ogni grande fenomeno: da semi sconosciuto a super paparazzato, da ottimismo di massa per finire poi sotto accusa come il grande problema.

Succede sempre così, è il ciclo del cambiamento. Una specie di legge naturale. Il fenomeno che sopravvive a questo frullatore, poi, è destinato a diventare un cambiamento epocale.

A che punto siamo di questo processo?

A mio avviso, abbiamo già finito un giro. Le prime montagne russe sono passate. Pertanto è il momento di interrogarsi davvero sul presente e futuro del lavoro, e prendersi la responsabilità di disegnare un modo di lavorare in linea con le esigenze del mercato, delle aziende e delle persone.

Ma che dicono le aziende?

Secondo una indagine Linkedin, ci sono opinioni contrastanti:

  • Il 71% dei C-level si dice convinto che le conquiste di lavoro ibrido siano destinate a restare nel tempo
  • Allo stesso modo, ad un’altra domanda, il 36% delle aziende dichiara di aver ridotto le proprie politiche di lavoro ibrido rispetto al periodo 2020-2021

Quindi..smart working si o smart working no?

Se lo chiediamo alle persone, ai collaboratori, difficile trovare un NO. Basta dare un’occhiata agli ultimi risultati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano:

  • Gli smart workers (i lavoratori ibridi) hanno un livello di benessere ed engagement superiore rispetto agli “on-site” workers (chi sta solo in sede) e soprattutto rispetto ai “remote workers” (chi lavora da remoto, ma senza le competenze e la giusta organizzazione)
  • Il 33% degli smart workers gode di ottime relazioni a lavoro (con il capo, con i colleghi e con l’organizzazione), vs. 18% dei remote e 25% degli on-site.
  • Il 13% degli smart workers è fully engaged (gradino più alto della scala), oltre il doppio dei remote workers (6%)

Che se ne parli bene o che se ne parli male, l’importante è parlarne (e ascoltare)!

A mio avviso, la buona notizia è che siamo ancora qui a parlarne. Questo dà speranza che il fenomeno sia davvero destinato a restare e a trasformare radicalmente l’organizzazione del lavoro. Speriamo solo che ci si metta meno tempo rispetto alle altre rivoluzioni, perché la Gen Z sta arrivando e si farà guidare solo da chi saprà interpretare al meglio le proprie esigenze.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Longennials? Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

Longennials? Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

Longennials?
Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

C’è una nuova tendenza nel mondo del lavoro che, manco a dirlo, si sta facendo strada negli Stati Uniti e presto arriverà anche da noi; è quella dei cosiddetti “longennials”: lavoratori over 50 che, pare, le aziende assumano più volentieri rispetto a giovani leve.

Sembra infatti che negli Stati Uniti il fenomeno sia in ampia crescita, principalmente per due motivi:

  • Plug and play: ovvero perché dispongono di conoscenze profonde del mercato/settore che li rendono “utilizzabili” dal primo giorno, riducendo fortemente i costi di formazione
  • Maggiore flessibilità (quantomeno potenziale)

Ecco una considerazione personale

Credo che questo fenomeno sia aiutato anche dai grandi movimenti di massa delle Great Resignation e del Quiet Quitting, che hanno investito e investono le generazioni lavorative più giovani (millennials e gen X). Non scordiamoci, inoltre, che la Gen x è decisamente a favore di uno stile di vita più incentrato sulla propria persona, che non lega la propria identità all’azienda per cui lavora (cosa che invece ancora succede con i millennials, soprattutto over 35) ma lavora “il giusto” per sviluppare poi la propria vita al di fuori del lavoro. Ecco, io penso che la risposta di alcune aziende a questo fenomeno sia, almeno in prima battuta, quella di puntare di nuovo sugli over 50. Puntare su atteggiamenti conosciuti piuttosto che guidare il cambiamento, soprattutto in un momento di crisi economica in cui serve portare a casa il risultato.

Non me ne vogliano gli over 50 che, anzi, considero una grande risorsa. Ricordo quando in azienda le persone avevano il terrore di compiere 50 anni perché la probabilità di essere messe da parte saliva vertiginosamente, quando invece, con le giuste politiche, talento ed esperienza possono davvero conquistare il mercato.

Che c’entra l’Italia con tutto questo fenomeno?

Gli ultimi dati sull’occupazione nel nostro paese segnalano un record di occupati (superati i 23 milioni), peccato che si tratti di lavoratori ampiamente over 50 e precari!

Come a dire agli amici americani.. non vi siete inventati nulla, qui da noi, in un paese sprofondato in un inverno demografico e che perderà 6,8 milioni di persone in età da lavoro entro il 2042, i longennials saranno sempre più una risorsa.  Anche perché non ci sono soldi per pagare loro le pensioni. Quindi.. Tutti a lavoro.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Vuoi che le persone tornino in ufficio? Rendilo social!

Vuoi che le persone tornino in ufficio? Rendilo social!

Vuoi che le persone tornino in ufficio?

Rendilo social!

Ormai lo sappiamo, c’è una grande frattura nelle aziende tra gli assidui frequentatori dell’ufficio e i remote workers “duri e puri”, che non capiscono proprio perché sia necessario spostarsi da casa per lavorare (soprattutto gli under 35).

Il tema del ritorno in ufficio, in modalità pre-pandemia, continua ad essere bollente per l’82% del management d’azienda, secondo il Microsoft Work Trend Index research; le interazioni dal vivo favoriscono la socialità, l’engagement e sviluppano nuove energie. Dall’altro capo del fiume, il 75% dei collaboratori intervistati ha dichiarato di dover cercare una buona ragione per tornare a lavorare in ufficio come richiesto dai propri responsabili.

Insomma, sembra proprio un empasse da duello stile “Spaghetti – Western”.

Come possiamo uscirne? Forse, guardando le cose sotto un altro punto di vista.

Proviamo a ragionare insieme e chiediamoci: quale è l’elemento che rende “engaged” lo stare in ufficio? Come mai la partecipazione in presenza aumenta l’energia e le occasioni di successo?

È perché in presenza si lavora meglio? O forse è perché in presenza è possibile occuparsi di altre persone vere, reali, aiutarle a crescere?

“People care about people”, leggevo in un articolo in americano proprio stamane.

E il valore di tornare in ufficio risiede nelle persone, non nel luogo; il luogo è soltanto un mezzo.

Quindi, se consideriamo che le persone torneranno in ufficio “contente” se potranno interagire con le altre persone, la soluzione è pronta: fare in modo che l’ufficio diventi (o torni ad essere) luogo di scambio, condivisione, partecipazione tra persone.

E cosa significa questo, nel post pandemia?

Ecco alcuni consigli:

  • Supportare l’interazione in ufficio. Evitare che i collaboratori passino tutta la giornata in videocall (avrebbero potuto farlo da remoto) ma promuovere invece momenti di connessione, sia programmata che spontanea
  • Definire momenti di interazione periodica. Possono essere team meeting settimanali, o un pranzo ogni trimestre. Ma cadenzare l’appuntamento lo renderà speciale, atteso.
  • Entrare nell’ottica che quelle interazioni sono comunque lavoro. Sono “benzina” per il cervello, sono spunti, confronti, che genereranno nuova energia e probabilmente nuove idee. Lo sono sempre state in realtà, ma adesso, dopo anni di remoto, si fa fatica a ricordarlo. Anzi, più si sale di livello e più sono vitali proprio per la buona salute del business.
  • Crederci veramente: l’autenticità è ormai più richiesta di qualunque altra skill. E.. non è una skill! Ma un’attitudine. La migliore per portare a bordo le persone. E si sa che le persone quando si sentono parte di qualcosa di grande da un lato sono contente, dall’altro tendono a dare il massimo e anche di più.

Nel dubbio, io, fossi un HR o un manager con responsabilità di persone… proverei!

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.