A cosa sei disposto a rinunciare per lavorare in Smart Working?

A cosa sei disposto a rinunciare per lavorare in Smart Working?

A cosa sei disposto a rinunciare per lavorare in Smart Working?

E’ la domanda (con le dovute traduzioni) che ha lanciato Zip Recruiting, piattaforma americana per la ricerca di lavoro, agli aspiranti candidati.

Il tema del lavoro da remoto sta diventando sempre più un trend anche negli Stati Uniti, dove praticamente tutte le aziende stanno richiamando in sede i propri collaboratori, generando un grande, enorme, malcontento, che si va ad innescare in una più ampia situazione di spirale recessiva, licenziamenti, etc etc.

Ma torniamo alla domanda. Cosa avrebbero detto, gli intervistati?

Sarebbero disposte a una riduzione dello stipendio del 14%, pur di lavorare da remoto. Se analizziamo i numeri nel dettaglio, si arriva fino al 18% nella fascia 18-24 anni.

In Italia, sappiamo che la legge impedisce diversità di trattamento economico tra lavoratori con e senza accordo di lavoro agile. A tal proposito la legge 81/2017 garantisce parità di trattamento economico, e molto hanno dato da discutere le questioni relative ai buoni pasto (con tanto di sentenze divergenti e numerosi pareri tecnici discordanti. Qui  le ultime posizioni).

Ma cambierebbe molto in caso di assunzioni in città diverse.

Che poi è anche, in parte, la questione affrontata dal survey di Zip Recruiting: negli Stati Uniti per vivere in alcune città (vedi NYC, o la Sylicon Valley) servono ormai stipendi da capogiro. Concedere la possibilità di lavorare da remoto permetterebbe anche di spostarsi più lontano rispetto all’head quarter, quindi le persone potrebbero permettersi anche stipendi più bassi.

Stessa cosa vale in Italia, lo vediamo con il cosiddetto South Working: vivere al sud ha spese minori rispetto alle città del Centro- Nord Italia. Ma anche spostarsi in alcuni borghi, ovunque nel Belpaese, può avere i suoi effetti economici positivi, anche a parità di stipendio con i colleghi della sede centrale.

Quello che mi rimane, ogni volta che leggo notizie come questa, è che finalmente le persone hanno capito che possono vivere una vita diversa: più flessibile e più centrata e che ci sono dei modelli di lavoro che, con la dovuta organizzazione, possono supportare questo stile di vita.

Ma la strada della piena affermazione è ancora lunga.

Quindi si va di scioperi, di volontarie rinunce allo stipendio, e chissà quali altre iniziative nasceranno nei prossimi mesi. Ma è un po’ come quel marinaio sul ponte della nave dall’Europa, che per primo ha visto l’America: non gli ha più tolto lo sguardo di dosso fino a quando non è sceso a terra. Così sarà per i nuovi modi di lavorare, in cui nessuno si fermerà fino a quando non saranno divenuti del tutto realtà concreta.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Il modello zero meeting funziona?

Il modello zero meeting funziona?

Il modello zero meeting funziona?

Siamo sempre più invasi di riunioni.

Secondo il Work Trend Index 2022 di Microsoft, nel 2022 le riunioni settimanali sono aumentate del 153% a livello globale per l’utente medio di Microsoft Teams dall’inizio della pandemia, e non ci sono indicazioni di inversione di tendenza, suggerendo che questo picco potrebbe diventare la nuova base di partenza.

Inoltre, da questo studio si evince che le riunioni sovrapposte (prenotate due volte) sono aumentate del 46% per persona in una settimana media e che il 42% di partecipanti è multitasking durante le riunioni (inviando attivamente un’e-mail o un ping) e che non include pratiche come la lettura e-mail e ping in arrivo (ad esempio lavoro di file, numeri, analisi o attività di archiviazione).

Insomma, siamo schiavi delle riunioni che, sempre secondo Microsoft, portano ad un aumento dell’uso del suo strumento, ma non necessariamente ad un aumento di produttività, efficienza, efficacia. E anche se pensiamo alla nostra giornata media, possiamo ragionevolmente ammettere che il 90% di quei meeting poteva essere una email.

È da qui che stanno ripartendo alcune grandi aziende: lanciando il modello “zero meeting” o “meeting reset”

Ad esempio, Shopify ha eliminato tutte le riunioni con più di due persone, con il divieto tassativo di effettuarne per un giorno a settimana. Molti colossi si stanno muovendo in tal senso, avendo capito che la riunione è diventato uno strumento di tortura e che, invece che aiutare, incatena l’organizzazione.

Il “meeting reset” passa quindi da un grande momento di detox, per ricominciare da capo, definire quali siano i meeting utili e inserire solo quelli, per quanto possibile.

In Italia ci sono già alcuni casi di aziende virtuose che si stanno ingegnando per liberare il tempo dei propri collaboratori. In Engineering le call sono di 30 minuti e fuori dalla fascia del pranzo; Satispay si ispira ai comandamenti di Bezos in tema riunioni e impone di inviare del materiale preparatorio, oltre che a fornire indicazioni sulla lista degli “invitati”, evitando chi non è strettamente necessario.

Insomma, siamo ancora lontani dal modello zero meeting, ma già che se ne parli porta fiducia e speranza. Non sappiamo se possa funzionare, ma di certo sappiamo che in questo momento si lavora con un carico di stress intollerabile e che diminuirlo porterebbe da subito risultati positivi, sul lavoro e sulle persone che, in fondo, spesso chiedono solo di poter lavorare in santa pace.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel mondo:
il risultato dello Studio Rödl & Partner in collaborazione con Adecco.

È stato da poco reso noto un report effettuato dallo Studio Rödl & Partner in collaborazione con LHH (The Adecco Group). Il gruppo è partito da 11 domande per analizzare similitudini e differenze per datori di lavoro e dipendenti nell’era del lavoro agile.

Cosa ne emerge?

Un quadro variegato, certamente. Considerando anche che lo studio ha avvicinato paesi con situazioni geopolitiche, sociali e culturali molto diversi (Dai paesi europei fino alla Cina passando per gli Emirati Arabi)

Lo Smart Working è contrattualizzato?

In molti paesi UE, si. In Francia, in Finlandia (anche se dipende da mansione e ruolo) e in Danimarca da molto poco tempo (2021). Non c’è invece traccia di contratti che legiferano lo Smart Working in Germania. Passando poi al resto del mondo, poco e nulla nei grandi paesi mondiali come Cina e India. Gli Emirati, invece, hanno introdotto una prima normativa durante la pandemia per poi eliminarla una volta finita l’emergenza.

In tutti i paesi però è previsto un accordo datore-lavoratore, proprio perché sono molti i temi su cui il lavoro agile può differire dal contratto di lavoro “standard”, come il luogo di lavoro “accettabile”, i rimborsi per i costi sostenuti, la dotazione tecnologica.

E il diritto alla disconnessione?

Il diritto alla disconnessione è stabilito con una legge o un articolo preciso in 7 dei 19 stati analizzati dallo studio; tra questi, anche l’Italia. Ricordiamoci infatti che nel nostro paese la Legge sul Lavoro Agile (l. n.81/2017) ha già definito tutto ormai 6 anni fa quando, a parlare di smart working, erano poche centinaia di migliaia di persone. 

Questa volta abbiamo fatto le cose bene e quasi per primi. Da ricordarselo quando, nelle chiacchere da bar, ci si trova ad ascoltare frasi come “all’estero funziona tutto meglio”!

L’intera ricerca è scaricabile dal sito www.lhh.com/it/

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working Si, Smart Working no?

Parliamone!

C’era un tempo in cui poche, pochissime, persone conoscevano il significato della parola “smart working”. Se ci guardiamo indietro, solamente 4 anni fa (2019) c’erano circa 500K* lavoratori dipendenti le cui aziende avevano implementato una qualche forma di smart working e, considerando gli addetti ai lavori, forse si arrivava a 600k.

Poi abbiamo affrontato una pandemia e il primo lockdown e quella parola, anche un po’ biascicata, pronunciata dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha fatto letteralmente il boom! Le ricerche su Google sono impazzite e, come ogni novità, sorgevano come funghi super esperti del caso e consigli imperdibili.

E poi che è successo?

Anche lo smart working ha attraversato il ciclo che colpisce ogni grande fenomeno: da semi sconosciuto a super paparazzato, da ottimismo di massa per finire poi sotto accusa come il grande problema.

Succede sempre così, è il ciclo del cambiamento. Una specie di legge naturale. Il fenomeno che sopravvive a questo frullatore, poi, è destinato a diventare un cambiamento epocale.

A che punto siamo di questo processo?

A mio avviso, abbiamo già finito un giro. Le prime montagne russe sono passate. Pertanto è il momento di interrogarsi davvero sul presente e futuro del lavoro, e prendersi la responsabilità di disegnare un modo di lavorare in linea con le esigenze del mercato, delle aziende e delle persone.

Ma che dicono le aziende?

Secondo una indagine Linkedin, ci sono opinioni contrastanti:

  • Il 71% dei C-level si dice convinto che le conquiste di lavoro ibrido siano destinate a restare nel tempo
  • Allo stesso modo, ad un’altra domanda, il 36% delle aziende dichiara di aver ridotto le proprie politiche di lavoro ibrido rispetto al periodo 2020-2021

Quindi..smart working si o smart working no?

Se lo chiediamo alle persone, ai collaboratori, difficile trovare un NO. Basta dare un’occhiata agli ultimi risultati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano:

  • Gli smart workers (i lavoratori ibridi) hanno un livello di benessere ed engagement superiore rispetto agli “on-site” workers (chi sta solo in sede) e soprattutto rispetto ai “remote workers” (chi lavora da remoto, ma senza le competenze e la giusta organizzazione)
  • Il 33% degli smart workers gode di ottime relazioni a lavoro (con il capo, con i colleghi e con l’organizzazione), vs. 18% dei remote e 25% degli on-site.
  • Il 13% degli smart workers è fully engaged (gradino più alto della scala), oltre il doppio dei remote workers (6%)

Che se ne parli bene o che se ne parli male, l’importante è parlarne (e ascoltare)!

A mio avviso, la buona notizia è che siamo ancora qui a parlarne. Questo dà speranza che il fenomeno sia davvero destinato a restare e a trasformare radicalmente l’organizzazione del lavoro. Speriamo solo che ci si metta meno tempo rispetto alle altre rivoluzioni, perché la Gen Z sta arrivando e si farà guidare solo da chi saprà interpretare al meglio le proprie esigenze.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.