Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel Mondo

Lo Smart Working nel mondo:
il risultato dello Studio Rödl & Partner in collaborazione con Adecco.

È stato da poco reso noto un report effettuato dallo Studio Rödl & Partner in collaborazione con LHH (The Adecco Group). Il gruppo è partito da 11 domande per analizzare similitudini e differenze per datori di lavoro e dipendenti nell’era del lavoro agile.

Cosa ne emerge?

Un quadro variegato, certamente. Considerando anche che lo studio ha avvicinato paesi con situazioni geopolitiche, sociali e culturali molto diversi (Dai paesi europei fino alla Cina passando per gli Emirati Arabi)

Lo Smart Working è contrattualizzato?

In molti paesi UE, si. In Francia, in Finlandia (anche se dipende da mansione e ruolo) e in Danimarca da molto poco tempo (2021). Non c’è invece traccia di contratti che legiferano lo Smart Working in Germania. Passando poi al resto del mondo, poco e nulla nei grandi paesi mondiali come Cina e India. Gli Emirati, invece, hanno introdotto una prima normativa durante la pandemia per poi eliminarla una volta finita l’emergenza.

In tutti i paesi però è previsto un accordo datore-lavoratore, proprio perché sono molti i temi su cui il lavoro agile può differire dal contratto di lavoro “standard”, come il luogo di lavoro “accettabile”, i rimborsi per i costi sostenuti, la dotazione tecnologica.

E il diritto alla disconnessione?

Il diritto alla disconnessione è stabilito con una legge o un articolo preciso in 7 dei 19 stati analizzati dallo studio; tra questi, anche l’Italia. Ricordiamoci infatti che nel nostro paese la Legge sul Lavoro Agile (l. n.81/2017) ha già definito tutto ormai 6 anni fa quando, a parlare di smart working, erano poche centinaia di migliaia di persone. 

Questa volta abbiamo fatto le cose bene e quasi per primi. Da ricordarselo quando, nelle chiacchere da bar, ci si trova ad ascoltare frasi come “all’estero funziona tutto meglio”!

L’intera ricerca è scaricabile dal sito www.lhh.com/it/

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working SI…Smart Working NO?

Smart Working Si, Smart Working no?

Parliamone!

C’era un tempo in cui poche, pochissime, persone conoscevano il significato della parola “smart working”. Se ci guardiamo indietro, solamente 4 anni fa (2019) c’erano circa 500K* lavoratori dipendenti le cui aziende avevano implementato una qualche forma di smart working e, considerando gli addetti ai lavori, forse si arrivava a 600k.

Poi abbiamo affrontato una pandemia e il primo lockdown e quella parola, anche un po’ biascicata, pronunciata dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha fatto letteralmente il boom! Le ricerche su Google sono impazzite e, come ogni novità, sorgevano come funghi super esperti del caso e consigli imperdibili.

E poi che è successo?

Anche lo smart working ha attraversato il ciclo che colpisce ogni grande fenomeno: da semi sconosciuto a super paparazzato, da ottimismo di massa per finire poi sotto accusa come il grande problema.

Succede sempre così, è il ciclo del cambiamento. Una specie di legge naturale. Il fenomeno che sopravvive a questo frullatore, poi, è destinato a diventare un cambiamento epocale.

A che punto siamo di questo processo?

A mio avviso, abbiamo già finito un giro. Le prime montagne russe sono passate. Pertanto è il momento di interrogarsi davvero sul presente e futuro del lavoro, e prendersi la responsabilità di disegnare un modo di lavorare in linea con le esigenze del mercato, delle aziende e delle persone.

Ma che dicono le aziende?

Secondo una indagine Linkedin, ci sono opinioni contrastanti:

  • Il 71% dei C-level si dice convinto che le conquiste di lavoro ibrido siano destinate a restare nel tempo
  • Allo stesso modo, ad un’altra domanda, il 36% delle aziende dichiara di aver ridotto le proprie politiche di lavoro ibrido rispetto al periodo 2020-2021

Quindi..smart working si o smart working no?

Se lo chiediamo alle persone, ai collaboratori, difficile trovare un NO. Basta dare un’occhiata agli ultimi risultati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano:

  • Gli smart workers (i lavoratori ibridi) hanno un livello di benessere ed engagement superiore rispetto agli “on-site” workers (chi sta solo in sede) e soprattutto rispetto ai “remote workers” (chi lavora da remoto, ma senza le competenze e la giusta organizzazione)
  • Il 33% degli smart workers gode di ottime relazioni a lavoro (con il capo, con i colleghi e con l’organizzazione), vs. 18% dei remote e 25% degli on-site.
  • Il 13% degli smart workers è fully engaged (gradino più alto della scala), oltre il doppio dei remote workers (6%)

Che se ne parli bene o che se ne parli male, l’importante è parlarne (e ascoltare)!

A mio avviso, la buona notizia è che siamo ancora qui a parlarne. Questo dà speranza che il fenomeno sia davvero destinato a restare e a trasformare radicalmente l’organizzazione del lavoro. Speriamo solo che ci si metta meno tempo rispetto alle altre rivoluzioni, perché la Gen Z sta arrivando e si farà guidare solo da chi saprà interpretare al meglio le proprie esigenze.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.

Longennials? Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

Longennials? Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

Longennials?
Fenomeno che avremmo potuto creare in Italia!

C’è una nuova tendenza nel mondo del lavoro che, manco a dirlo, si sta facendo strada negli Stati Uniti e presto arriverà anche da noi; è quella dei cosiddetti “longennials”: lavoratori over 50 che, pare, le aziende assumano più volentieri rispetto a giovani leve.

Sembra infatti che negli Stati Uniti il fenomeno sia in ampia crescita, principalmente per due motivi:

  • Plug and play: ovvero perché dispongono di conoscenze profonde del mercato/settore che li rendono “utilizzabili” dal primo giorno, riducendo fortemente i costi di formazione
  • Maggiore flessibilità (quantomeno potenziale)

Ecco una considerazione personale

Credo che questo fenomeno sia aiutato anche dai grandi movimenti di massa delle Great Resignation e del Quiet Quitting, che hanno investito e investono le generazioni lavorative più giovani (millennials e gen X). Non scordiamoci, inoltre, che la Gen x è decisamente a favore di uno stile di vita più incentrato sulla propria persona, che non lega la propria identità all’azienda per cui lavora (cosa che invece ancora succede con i millennials, soprattutto over 35) ma lavora “il giusto” per sviluppare poi la propria vita al di fuori del lavoro. Ecco, io penso che la risposta di alcune aziende a questo fenomeno sia, almeno in prima battuta, quella di puntare di nuovo sugli over 50. Puntare su atteggiamenti conosciuti piuttosto che guidare il cambiamento, soprattutto in un momento di crisi economica in cui serve portare a casa il risultato.

Non me ne vogliano gli over 50 che, anzi, considero una grande risorsa. Ricordo quando in azienda le persone avevano il terrore di compiere 50 anni perché la probabilità di essere messe da parte saliva vertiginosamente, quando invece, con le giuste politiche, talento ed esperienza possono davvero conquistare il mercato.

Che c’entra l’Italia con tutto questo fenomeno?

Gli ultimi dati sull’occupazione nel nostro paese segnalano un record di occupati (superati i 23 milioni), peccato che si tratti di lavoratori ampiamente over 50 e precari!

Come a dire agli amici americani.. non vi siete inventati nulla, qui da noi, in un paese sprofondato in un inverno demografico e che perderà 6,8 milioni di persone in età da lavoro entro il 2042, i longennials saranno sempre più una risorsa.  Anche perché non ci sono soldi per pagare loro le pensioni. Quindi.. Tutti a lavoro.

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Per questo articolo ringraziamo Martina Sconcerti, Business, Career Coach & Speaker per Radio Smart Working.